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GIUSEPPE PAMBIERI SI RACCONTA...
![]() Intervista a Giuseppe Pambieri, l’arte dell’attore
Incontro con Giuseppe Pambieri, tra i più grandi attori della scena italiana, in tournée con lo spettacolo Todo Modo tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia adattato teatralmente da Matteo Collura, con la regia di Maurizio Marchetti e Fabrizio Catalano Sciascia (nipote dell’autore). In questo periodo lei è in scena nello spettacolo Todo Modo. Cosa l’ha attratta nel recitare il ruolo di Don Gaetano? Giuseppe Pambieri: La storia è un po’ lunga di come sia avvenuto il mio incontro con questo spettacolo. In questa stagione avrei dovuto fare uno spettacolo diretto da me L’Anfitrione, che avevo portato in giro già l’estate scorsa e che ha registrato molto successo. Poi l’impresario che aveva in mano il progetto di Todo Modo mi ha convinto a partecipare. Inoltre appena ho letto il testo mi è piaciuto subito, anche perché a me piacciono molto le scommesse. Il personaggio che interpreto è Don Gaetano, molto misterioso, affascinante, depositario di segreti che la classe dirigente trama e che ogni anno si ritrova nell’albergo ex monastero che dirige per compiere degli esercizi spirituali, ma soprattutto per concludere grossi affari. Avendo letto in precedenza il romanzo di Sciascia da cui lo spettacolo è tratto, l’ho riletto e all’inizio mi parse un’operazione impossibile: il libro è pieno di citazioni, costruito con uno stile ostico sul momento, ma che poi entra dentro. Tradurlo in un testo teatrale mi pareva molto difficile. Devo dire che Collura c’è riuscito benissimo. Non mi aspettavo l’impatto che poi ha avuto sul pubblico, soprattutto quello giovane, visto che si tratta di uno spettacolo molto forte. Ero reduce da due stagioni di teatro brillante, quindi mi è piaciuto inserirmi in questo testo, ho sempre detto che un attore deve fare di tutto, passando dalla tragedia alla commedia nel modo più veloce possibile, anche per non annoiarsi nel fare sempre un solo genere. Questo spettacolo racchiude in sé un’attualità sconvolgente, le cose che si raccontano sono le stesse che avvengono oggi in Italia, sono i grandi misteri irrisolti che dagli anni settanta in cui Sciascia scrisse il romanzo ad oggi permangono, e la gente li riscontra e rimane sconvolta. Lo spettacolo s’incentra sullo scontro ideologico tra Don Gaetano ed il Professore, interpretato da Paolo Ferrari, con una cadenza da “giallo” in cui si susseguono una serie di delitti che rimarranno anch’essi irrisolti, come diceva Sciascia sono delle ferite che rimangono aperte e s’incancreniscono, portando allo sfacelo la società. Don Gaetano è guidato dal fanatismo religioso: disprezza chi lo circonda ma nel contempo lo ama. E' anch’egli un affarista che raggiunge una catarsi finale. Le sue citazioni e i suoi interventi sono complessi, però il pubblico segue molto bene ed alla fine si rivela un personaggio abbastanza vincente. Come ho chiesto al suo collega di scena Paolo Ferrari, vorrei sapere: secondo lei in che stato di salute vive oggi il Teatro? (G.P.): Premetto che da quando ho iniziato a fare questo lavoro si parla di crisi del Teatro. Questa è una bella premessa che fa ben sperare! Secondo me la gente è esausta della televisione, i messaggi banali, melensi, anche di certa fiction, naturalmente c’è la tv fatta bene e quella no. La gente ha voglia di andare a Teatro, lo vediamo che il pubblico c’è, che vuole vedere gli attori dal vivo. Il problema è che in questo periodo le sovvenzioni vengono sempre più a mancare, ed il Teatro da solo non può vivere, altrimenti si andrebbe verso un’omologazione fra televisione e Teatro, in quanto i produttori devono guadagnare e vanno incontro al pubblico nel modo più becero possibile. Quindi, ad esempio, Todo Modo non lo farebbero, ma soltanto spettacolini mediamente divertenti inserendo le veline di turno e così via. Ora, il Teatro da sempre ha bisogno di essere sovvenzionato, e con i continui tagli il problema diverrà sempre più grosso. Inoltre, con il federalismo il potere delle sovvenzioni alla cultura e allo spettacolo passerà alle regioni, con conseguenti smembramenti. Io Giuseppe Pambieri potrei non venire più qui in Sicilia, dato che è probabile vengano avvantaggiate le realtà autoctone. A parte due o tre eventi grossissimi che potranno avere incidenza sui vari assessori, le produzioni locali rivendicheranno le sovvenzioni a scapito di quelle di altre regioni. Tutto starà nell’intelligenza degli assessori di turno nel prediligere spettacoli di spessore oppure spettacoli nazionali che riportano i nomi degli ultimi personaggi famosi. La natura elitaria del Teatro continuerà a rimanere, perché i teatri non possono ospitare ad ogni spettacolo più di 500 – 600 persone, e naturalmente moltiplicati per tutte le repliche di uno spettacolo durante una tournée il numero degli spettatori è sempre inferiore rispetto all’audience televisivo. Quindi ribadisco che la crisi c’è, ma per fortuna c’è altrettanta voglia di Teatro. Dopo Todo Modo quali saranno i suoi prossimi impegni lavorativi? (G.P.): Riprenderò al Teatro Manzoni di Milano lo spettacolo To be or not to be, una macchina teatrale imponente con ben 17 attori, con le musiche scritte da Nicola Piovani: molto divertente ma anche con momenti malinconici, in cui alla fine l’arte vince sul male. Quest’estate con tutta la famiglia (ndr. le straordinarie attrici Lia Tanzi e Micol Pambieri, moglie e figlia) farò il Don Giovanni di Molière con la regia di Tinto Brass. So che quest’ultimo dato lascia un po’ sconcertati, però Brass vuole tornare a fare Teatro seriamente, come agli inizi della sua carriera ed il testo del Don Giovanni si presta bene ad emanare quel profumo erotico molto congeniale a questo regista. Quindi tanti impegni lavorativi da gestire mi aspettano! Laura Spitali ![]() Intervista di Marialetizia Colacchia
Volto televisivo della fiction Incantesimo, Giuseppe Pambieri è un apprezzato attore del teatro. Lo conferma il Premio Gassman 2005, assegnato dal pubblico teatrale, che lo ha eletto a "migliore attore" per l'interpretazione di Baldovino ne "Il piacere dell'onestà". Lo incontriamo a Lanciano, presso l'Auditorium Diocleziano, dove ha appena terminato un recital intitolato "Serata Futurista". Ed è una curiosa coincidenza vederlo recitare brani di Aldo Palazzeschi come a richiamare, involontariamente, quel suo primo grande successo televisivo "Le sorelle Materassi" dell'omonimo scrittore. Era il 1972. Giuseppe Pambieri, lei ha appena ricevuto il Premio Gassman edizione 2005 come migliore attore per "il Piacere dell'Onestà". Che effetto le fa ricevere questo premio? Eh, sono molto contento, sono molto felice! Non avrei voluto mancare assolutamente a questo appuntamento. Tanto è vero che ho abbandonato uno spettacolo che sto facendo, naturalmente siamo riusciti a rimediare in qualche modo e stasera vanno in scena ugualmente, domani poi riprenderò la mia posizione. Ho voluto essere presente per ritirare questo premio perché è l'unico premio in Italia veramente trasparente ed è il pubblico ad assegnarlo. Noi lavoriamo per il pubblico. È ovvio, dice una persona normale, ma non è vero che è ovvio, perché ci sono molti attori, molti registi che lavorano per se stessi e si fanno elucubrazioni mentali perché devono prima soddisfare se stessi. Noi invece lavoriamo per il pubblico e se il pubblico non gratifica l'attore, come amava anche dire Vittorio Gassman cui è intitolato questo premio…io lo stimavo moltissimo Gassman e so che anche lui mi stimava e ciò rende ancora più saporito il gusto di ritirare questo premio. Ecco è un premio del pubblico. Lei che rapporto ha con il pubblico? Il pubblico è una bella bestia. Il pubblico io lo amo, qualche volta mi fa una rabbia tremenda quando vedo che non mi corrisponde e allora ti interroghi e pensi che a volte è anche colpa dell'attore. Noi siamo dipendenti e c'è una certa osmosi tra il pubblico e noi e io so che se dai con amore e con affetto e con divertimento e con leggerezza al pubblico, il pubblico ti ricambierà sicuramente. Se tu sei onesto dentro e quello che presenti è il frutto della tua professione fatto con onestà, il pubblico ti ringrazia e ti porta avanti. Questo l'ho constatato in tutta la mia carriera. Quindi l'idea del premio è ancora più gradita… Sì, certo. È una idea che Milo Vallone ha avuto e mi fa invidia che l'abbia avuta perché ci pensavo da tanto di creare un premio dove fosse il pubblico a giudicare senza i critici - senza nulla togliere alla bontà, alla grandezza di certi critici italiani! …ma sappiamo benissimo che oggi la critica disinteressata non esiste più… Lei quando ha capito che sarebbe diventato attore? Devo confessare che fin da piccolo mi piaceva travestirmi, camuffarmi, truccarmi, essere un po' diverso da me, pirandellianamente. Mi piaceva proprio mettermi in maschera, nel senso di cambiare la mia personalità. Mi ricordo che a volte uscivo di casa e suonavo il campanello tutto truccato, sporco e mi facevo dare l'elemosina, poi scoppiavo a ridere e capivano che ero io. Quindi evidentemente questi erano segnali di una vocazione di qualcosa che doveva scattare prima o poi. Ho una curiosità che ho riscontrato in diversi attori. Lei ha studiato giurisprudenza, poi d'un tratto ha deciso di lasciare tutto e fare l'attore. Ma c'è un'analogia tra lo studio della legge e la disciplina teatrale? No, no. La Giurisprudenza era quello che ci imponevano i genitori. Una volta finito il Liceo, dovevi prendere la laurea, ma non avevi un indirizzo. Vorresti fare il medico, ma non hai voglia, vorresti fare l'architetto…la cosa intermedia dici, mah facciamo legge, la meno impegnativa, anche se poi anche quella per farla bene è impegnativa. Però dopo otto/nove esami ho detto basta…nel frattempo mi ero iscritto alla scuola del Piccolo e lì è cominciata questa passione. L'unico esame che mi è piaciuto dare è stato medicina legale, ho preso trenta. Mi sono sempre piaciuti i gialli, i thriller …anche quello bene si lega al mestiere dell'attore! Eh certo, certo. C'è il gusto dell'indagine, della psicologia, del conoscere le persone.. noi viviamo di psicologia. Un bravo attore deve studiare il prossimo, osservare moltissimo come si comporta e come reagisce. Lei che è sulle scene da tanto tempo, ha notato un cambiamento sostanziale nell'approccio al mondo del teatro e della televisione? Mah, oggi sono cambiati i tempi, i computer, la tecnologia hanno fatto passi da giganti. È cambiato il nostro approccio alla vita e necessariamente è cambiato anche il nostro modo di fare televisione. Nel senso che prima si faceva soprattutto grande letteratura, si prendevano ad esempio grandi romanzi e si riducevano per la televisione, oggi si assiste - al contrario - a una ricerca continua di verità spesso anche un po' melensa. Ora si sta tornando anche a rivisitare situazioni storiche, si sta tornando al romanzo come Cime Tempestose. Trovo l'indirizzo più giusto sia quello di tornare alla grande letteratura, quindi ad un approccio culturale alto. Oggi assistiamo a un grande fermento di fiction, di cui faccio parte anche io con Incantesimo, ma insomma, ci sono anche tanti scrittori che sprecano un po' le loro cartucce e sono ripetitivi. Invece si potrebbe cercare di scrivere cose un po' più interessanti. Da un punto di vista dell'attore abbiamo oggi tanti giovani attori che sono bravi. Quali sono le qualità che un giovane attore deve avere? Oggi io li metto tutti in guardia. È tutto più difficile di quando ho iniziato io, perché quando ho iniziato c'era meno dispersione, c'erano meno tentazioni, meno canali, meno compagnie in giro, la televisione era una sola e quindi facevi uno sceneggiato, avevi venti milioni di spettatori ed era fatta per tutta la vita. Oggi c'è questa nevrosi di cambiare continuamente canale e anche se uno fa televisione non è detto che arrivi. È una situazione molto più confusa e affermarsi è purtroppo oggi più difficile. Assistiamo paradossalmente a un successo talvolta non meritato che avviene improvviso magari per una partecipazione al Costanzo Show, che ora non c'è più, ma che insomma …ecco questi giovani sono sbalestrati. Cosa devono fare? Il dilemma è devo fare la puttana o devo fare l'attore? Devi fare l'attore se vuoi reggere in questo mondo. O hai una struttura morale dentro fortissima e fuori una grande duttilità - ma è difficilissimo - altrimenti ti lasci prendere e sei travolto. Quindi io consiglio a chi ha talento, a chi ha voglia di fare, di fare la base teatrale. Partire dal teatro anche perché tutti questi comicastri bravi vogliono poi fare teatro per qualificarsi e stanno inquinando. Credo che se hanno voglia di fare, facciano pure, ma devono sapere che è molto più dura di quando ho iniziato io. La gavetta ha ancora senso farla? Non la vorrebbero fare, oggi non la vorrebbe fare più nessuno, vorrebbero arrivare subito. È quello il problema. Però non hanno le carte in regola e allora succede che poi si perdono. Oggi chi ha il coraggio di fare la gavetta arriva, però ci vuol grande pazienza e magari rischiare di vedere passare avanti una persona che per una puntata in televisione rischia di avere un grande successo. Ma non è detto che duri. Torniamo allo spettacolo per il quale è stato votato come migliore attore, Il piacere dell'onestà, scritto da Pirandello nel 1917 è un'opera ancora attuale. Secondo lei dove resta la modernità del testo? Mah, è moderna per quanto riguarda il tema della maschera e dell'ipocrisia, ma non per quanto riguarda il fatto contingente in sé, perché oggi c'è il divorzio. Per tutto il resto è ancora attualissima e la riprova è l'attenzione con cui lo spettacolo è stato seguito da tutti i pubblici di tutti i teatri d'Italia in cui siamo stati. Anche la critica è stata carinissima, meno - e lo devo dire perché mi devo togliere questo sasso - una grande testata italiana, l'unica che si è rifiutata di venire a vederlo perché ha detto "Pirandello mi ha stancato", quando la critica ha il dovere di presenziare e comunque vedere uno spettacolo considerato da tutti molto bello. Ecco, questo giornale si è limitato a scrivere un trafiletto di cinque righe rifiutandosi di fare la critica. Anche per questo devo dire che mi fa ancora più piacere essere qua a ricevere un premio che mi ha assegnato il pubblico. Leggevo in una precedente intervista, che lei prima di andare in scena si fa il segno della croce non come gesto scaramantico ma perché ci crede. La fede l'ha aiutata a non mollare anche nei momenti di difficoltà? La Fede è una conquista recente dovuta soprattutto a mia moglie che ha avuto un passaggio epocale della sua vita. Lei crede con più forza di me, io ci sto arrivando piano piano e ho capito che certe cose, certi valori sono molto importanti, e sto riscoprendo anche la Fede di fatto, quindi non è un gesto scaramantico. Il primo spettacolo che è andato a vedere da bambino. Il primo spettacolo che mi ha colpito di più a scuola, è il Diavolo e il buon Dio. Lionello, che faceva Goetz, era il protagonista e lì ho deciso che mi piaceva tanto fare l'attore. Lui faceva due personaggi, uno con la voce arrochita e l'altro con la voce normale. Mi ha affascinato enormemente e lì ho deciso di far l'attore. A Lionello piacqui moltissimo, ci fu una grande stima reciproca. Prima mi parlava di Gassman, della stima… Stimavo Gassman per l'apporto culturale e non noioso che ha portato nel teatro. Lui amava la leggerezza ed è quello che dico sempre ai giovani. Io non amo la sacralità inutile, il regista si mette in cattedra e fa il professorino. Siamo tutti nello spettacolo: tu regista prendi da me quello che ti offro meglio, non devi impormi una battuta, perché è una cosa reciproca, un do ut des, dobbiamo raggiungere il meglio, far divertire il pubblico. Gassman aveva questo: diceva sempre io nello spettacolo mi impegno molto perché è come una partita, alla fine devi essere gioiosamente stanco perché ti sei divertito per due ore facendo una grande fatica, sudando per due ore ma alla fine devi avere la sensazione di una gioia interiore, mai angosce in teatro! La gioia di aver comunicato qualcosa? Esatto. Guai a quegli attori criptici che pensano solo a se stessi! Marialetizia Colacchia ![]() Pambieri l'eclettico
Il gioco del teatro prevede che l'eclettico Giuseppe Pambieri - spesso e volentieri in coppia con la moglie Lia Tanzi e la figlia Micol - alterni disinvoltamente Seneca, Anna Frank, Simon Weil, spettacoli come Enrico V o Molto rumore per nulla con Neil Simon o le ultime divertenti commedie francesi. L'ultima prova del clan Pambieri al completo sta lì a dimostrarlo: è il Mercante di Venezia di Shakespeare per la regìa di Antonio Syxti. «Cambiare di continuo ruoli per me è fondamentale, anche se il teatro italiano considera l'intrattenimento una perdita di tempo e la critica ufficiale si muove solo per drammi e tragedie». Un Mercante di Venezia, quello di Syxti, in chiave post moderna, ambientato in una Venezia dominata dal dio denaro. «Come nel mondo d'oggi», puntualizza Pambieri. «I riferimenti all'attualità sono moltissimi, soprattutto in questo Shakespeare: l'usura, la xenofobia, c'è tutto. Shylock più che essere un personaggio negativo, come è stato spesso interpretato, risulta una vittima schiacciata dai cristiani. Lui rappresenta il potere economico, fa le veci della banca di oggi e quelli che gli sono attorno sono rappresentate come persone di basso livello morale dove tutto è basato sull'ipocrisia, sul tradimento... La storia si ripete». Niente a che vedere, ci pare, con la lettura che ne fece Alberto Lionello, l'ultimo ad interpretarlo quattro anni fa... «No, lui non lo affrontò dal lato tragico. L'ideale per l'interpretazione di Shylock è a metà strada perché è un personaggio che ha un gran livello tragico che io ho accentuato, pur mantenendo l'ironia, il grottesco. Torniamo all'eclettismo, a quella voglia di cambiare personaggi così diversi tra loro. È vero che in Italia sembra una colpa? «È una scelta che si paga a caro prezzo. Se facciamo Molto rumore per nullasiamo venduti per la tournée molto di più di questo Mercante. La prima cosa che ti dicono i proprietari dei teatri è che siamo lontani dai personaggi. Anche se ho la barba bianca da cinquantenne l'età di Shylock non è quella di un vecchio barbogio. Ma anche il pubblico, talvolta, sbalordisce: «Ma come - ho sentito dire - un attore così carino che fa un malato di mente?». Forse pensano che solo alcuni attori possano interpretare certi ruoli». Si riferisce ai colleghi della tua generazione? «Io ho 51 anni, all'incirca come Andrea Giordana, Gabriele Lavia, Franco Branciaroli...». Sa che quando si dice che un attore è specializzato in ruoli drammatici è perché sa fare solo quello... «Lo so, diciamo che alcuni di loro hanno scelto un certo tipo di carriera, il dramma, la tragedia, la cosa "pallosa" insomma... Io mi diverto di più a cambiare ruoli. Quando ho recitato Simon Weil per Ronconi ho ricevuto critiche stupende. Nella comicissima e riuscita Cena dei cretini ho ricevuto grandi complimenti da un lato e dall'altro è stato detto: ma perché Pambieri si spreca in certe cose, lui può fare di più». E allora rispondo: vieni a vedermi anche nel Mercante. In Italia queste cose le paghi però, non c'è la cultura dell'eclettismo come in Inghilterra... Un attore non è tale se non si cimenta con i tempi comici della commedia? «Assolutamente. Fai fare a Lavia o Branciaroli un Neil Simon, forse non saprebbero da dove cominciare. Quel tipo di leggerezza è necessaria per affrontare con più elasticità gli spettacoli drammatici». Il tuo sogno però rimane quello di fare Amleto... «Se non mi sbrigo farò il papà di Amleto!. E perché non Riccardo III? Vengo dal Piccolo di Milano e non lo dimentico. Magari li si potrebbe alternare alle commedie di fine Ottocento, Oscar Wilde, Shaw e poi lavorare di nuovo con Luca Ronconi. Sarebbe magnifico». E la televisione? «Solo per La Piovra, in linea generale, potrei rinunciare ad una stagione di teatro. Poi mi rendo conto che esistono anche altre opportunità, ultimamente. Sto riprendendo i contatti con la televisione: Fiction, telefilm anche divertenti, perché no. Basta che siano lavori dignitosi, fatti bene. Dico: Bando alle ipocrisie, un po' di popolarità conviene sempre averla in questo mestiere, come l'avevo una volta...». Come giudichi il ritorno della prosa in Tv? «Positivamente. Il problema sono sempre le riprese». In studio sarebbe diverso? «Il procedimento è analogo, così come avviene adesso per alcuni spettacoli ripresi direttamente dal teatro. Succedeva lo stesso nell'epoca d'oro delle commedie televisive. La fregatura dov'è, oggi? I ritmi non sono mai quelli teatrali, mancano di freschezza. Io sono del partito "meglio che niente", però posso dare un mio suggerimento: fate come per le commedie di Govi girate in teatro, con un pubblico vero e con delle risate vere. Almeno avremmo un documento. Eppoi mi rendo conto che sarà difficile tornare subito al teatro televisivo di un tempo quando avevamo venti giorni di prove e dieci di registrazione, quando si lavorava come per il cinema. Ma bisogna insistere e dire basta ai lavori originali e di basso livello culturale». La famiglia Pambieri, Giuseppe, Lia Tanzi, Micol, continuerà a lavorare ancora insieme? «Ben volentieri, con lo spettacolo giusto. Ma già in questa stagione ci divideremo una volta terminate le repliche previste del Mercante. Io riprenderò Harem per la regìa di Albertazzi e il testo di Alberto Bassetti, la novità d'autore italiano che ha costituito il caso all'ultimo Festival di Taormina, in cui faccio palpitare i cuori di ben quattro donne contemporaneamente. Mia moglie Lia riprenderà con Manfredi Gente di facili costumi, infine Micol debutterà accanto alla Masiero nel ruolo di protagonista nella nota commedia di De Benedetti Non ti conosco più. È tutta la mia famiglia che è portata all'eclettismo». MARCO COSTANTINI ![]() Intervista a GIUSEPPE PAMBIERI di Raoul Bianchini
Come ha avuto inizio la sua carriera artistica in ambito teatrale? Frequentavo Giurisprudenza, ma avevo questa passione per il teatro dentro di me e sono passato alla scuola del Piccolo dove ho fatto l’esame ed ho cominciato con Streiler ne Il gioco dei potenti e l’ Enrico VI di Shakespeare è stata la prima grossa esperienza. Lei ha interpretato diversi ruoli tratti da Shakespeare e Goldoni. Quale autore preferisce? Mi considero un attore eclettico, a tutto campo; un attore è bravo se riesce a fare il comico, il drammatico e il satirico. Sicuramente ho una grande passione per i classici antichissimi greci e latini, per Shakespeare e per i testi moderni di Simon, anche comicissimi, infatti l’ultima volta ho messo in scena La cena dei cretini di Weber con Bruschi. C’ è un ruolo che fin’ora non ha rappresentato e che vorrebbe fortemente portare in scena? Macbeth e Riccardo III, testi che desidero fare prima che la vecchiaia mi avvolga definitivamente nelle sue brume. Tra la carriera di attore e quella di regista quale preferisce? Preferisco la strada maestra dell’attore…sono nato attore, ma mi intriga molto fare gli spettacoli come regista perché l’attore che fa la regia ha la grande possibilità di aiutare gli altri attori in quanto conosce i trucchi del mestiere. Dedicarsi alla regia significa sviscerare i testi, entrare veramente nello specifico ed avere delle idee originali, ma questo può succedere a chi non si dedica ad entrambi. Nel testo Il fu Mattia Pascal di Pirandello emerge un forte disagio di vivere. Lei lo trova attuale? Soprattutto in questo momento è appropriatissimo. Questo desiderio di uscire, di rompere con una situazione che ti soffoca, dove non riesci a vivere, dove la tua identità è messa a repentaglio, i sogni spesso muoiono all’alba e ti senti in gabbia, mi sembra molto attuale. Qual è il percorso che segue per costruire un nuovo personaggio? In genere mi lascio andare all’istinto, ma indago il periodo se si tratta di un personaggio storico, poi basta affrontare il testo ed è su quello che lavoro, cerco di capirne le direttive generali e particolari. Chiaramente è di grande aiuto avere una buona regia. C’ è un momento nella rappresentazione in cui sente maggiormente il personaggio aderire alle sue corde? Quando avviene la mutazione, l’eccitazione del cambio di identità per entrare in una vita virtuale. Com’è stato lavorare con sua moglie Lia Tanzi ? C’è una complicità maggiore, al pubblico piace vedere la famiglia unita, ma ci sono anche i difetti, ovvero portare in scena la tensione dei piccoli litigi. Chi per lei è stato un maestro? Ho avuto un maestro che ha creduto in me per farmi uscire dal Piccolo ed è Franco Enriquez con Valeria Morione. Ho un gran bel ricordo di Enrico Maria Salerno che è stato un maestro di vita, una persona di una bontà estrema. A che punto è giunto il teatro italiano? Penso sia un po’ al capolinea per cattiva gestione. Il pubblico vuole venire a teatro, ma a volte assiste a spettacoli improponibili. Il teatro è diventato un luogo dove vengono a riciclarsi personaggi che non hanno avuto successo in televisione. ![]() Intervista di Boris Sollazzo
PERSONAGGI La fiction di Raidue, all’ottavo anno, restituisce all’attore varesino i fasti televisivi degli anni ’70, quando recitava nelle«Sorelle Materassi» Pambieri: «Vivo per il teatro,ma "Incantesimo" mi fa sentire un divo» Giuseppe Pambieri, 61 anni, è nato a Varese ROMA Giuseppe Pambieri, nato a Varese 61 anni fa, ha una storia particolare e interessante, divisa tra teatro e televisione. Grande interprete sul palcoscenico, primo attore della sua compagnia familiare che annovera anche la moglie Lia Tanzi e la figlia Micol, ottenne un successo davvero notevole come divo televisivo negli anni ’70. Fu protagonista di sceneggiati che hanno fatto epoca, tra i quali Le sorelle Materassi, ma venne poi dimenticato dal piccolo schermo in coincidenza con la fine del monopolio Rai. Dopo applausi e successi nell’elitario ambiente teatrale torna in tv con Incantesimo, in onda su Raidue il venerdì sera. È Diego Olivares, affascinante e rassicurante capo carismatico della clinica Life. Un anno fa ha deciso di prendersi una pausa. Ora è rientrato. Contento di questo ritorno in tv? Non esageriamo. L’emozione ormai non è più tanta. Il meccanismo della nostra fiction è collaudato. Ciò non toglie che Incantesimo mi ha davvero dato molto. Fino a venti anni fa ero un divo televisivo, poi l’avvento di Mediaset e delle tv private cambiò i palinsesti. Grazie ad un incontro fortuito, arrivò questa opportunità. La cosa che più mi ha colpito di questo nuovo successo è la trasversalità. Dalle ragazzine alle donne mature Diego Olivares suscita molto successo. Viviana, Amalia, Antonella sono giovanissime ammiratrici che, dal sud al nord, mi seguono con un’attenzione insospettabile. Hanno aperto un fan club e un sito senza che lo sapessi. Forse per molte Olivares è la proiezione di un padre e di una famiglia ideale: alto borghesi, liberali e progressisti. È peggiorata la programmazione di questi anni? Sicuramente la tv ha sempre avuto un ruolo importante. Ricordo la sera del 1972, quando tornai a casa e andava in onda lo sceneggiato Le sorelle Materassi, in cui io recitavo. Il giorno dopo venivo fermato per strada da tantissime persone. Va detto che a quel tempo c’era una sola possibilità, mentre ora ci si disperde. Centrare la grande occasione è molto più difficile. Questo provoca due conseguenze negative: l’inquinamento dell’ambiente teatrale con divetti e veline e una minore professionalità in tv. Ovvio, dal momento che, fossero esordienti o di grande fama, prima, per la serialità televisiva, venivano scritturati attori provenienti dal teatro. Riferimenti a Walter Nudo, per caso? Lui è l’eccezione. Una persona deliziosa, una professionalità e un’umanità perfetta. E’ umile e, pur avendo da imparare, non lo trovo affatto male. Perché ha lasciato Incantesimo? E perché torna? Per il teatro. E perché credono che costo troppo! Scherzi a parte uno dei motivi perché sono qui è proprio il produttore Guido De Angelis. Lui e gli altri sanno che senza il teatro sarei un uomo a metà. Quest’anno poi è stato pieno di soddisfazioni, ho vinto anche il premio Vittorio Gassman. Ci tengo a sottolinearlo perché mi rende particolarmente orgoglioso che venga attribuito dal pubblico e non dalla critica. Pensa che durante la terza serie, quella in cui sono stato più presente, ho comunque recitato sul palcoscenico per un mese, tra mille sacrifici. Potrei anche lasciare di nuovo. Se, per esempio, diventasse una striscia quotidiana. Comunque nessuno sa se ci sarà una nona serie! Difficile interpretare Diego Olivares? Con la mia esperienza, no. E’ un concentrato di vita normale. Mi ritrovo in quest’uomo positivo e propositivo, onesto, ottimista, un pò ingenuo. Come me. Boris Sollazzo ![]() Palermo - 08/03/04
Quando è maturata la sua decisione di intraprendere la professione di attore? La scintilla è avvenuta molto presto perché mi piaceva camuffarmi, truccarmi, essere diverso da quello che ero. Davanti allo specchio mi cambiavo, mi mettevo delle giacche grandi, magari smesse da mio padre. Una volta mi sono truccato da barbone, mi sono sporcato la faccia (era sotto Natale ed esistevano ancora gli spazzacamini), ho suonato alla porta, mio padre è venuto ad aprirmi ma non mi ha riconosciuto, mi ha dato l’elemosina e io sono scoppiato a ridere. Vuol dire che sotto sotto c’era questa voglia inconscia di entrare in altri personalità, di cambiare, di trasformarsi. Poi l’ultimo anno di liceo abbiamo fatto uno spettacolo, ovviamente i professori erano contrari perché dicevano che così non studiavamo, non si può e roba varia. Insomma c’era questo teatrino al collegio San Carlo, che poi è diventato uno squallido auditorio, però allora era ancora un teatro vero, molto antico, con le strutture ancora ottocentesche. Avevamo deciso di fare l’Aulularia di Plauto, eravamo tutti maschi come si faceva nell’antica Grecia e io facevo Strobilo e Strobilone, questi due servi. Lì mi trovavo a mio agio, sentivo che c’era qualcosa che mi attirava molto, tant’è che i professori misero a dire “Ma tu hai studiato? Insomma hai questa voce”, e io “no, non ho fatto nulla, mi piace”. Poi mi hanno fatto leggere delle poesie in una serata e così via. Così è cominciata ad arrivare la scintilla e mi dicevo magari finito il liceo mi iscrivo alla scuola del Piccolo, che tra l’altro era vicinissima al San Carlo. Quando sono andato per l’iscrizione era ormai chiusa perché era già settembre inoltrato. Esco con la pipa nel sacco e in quel momento sento uno che mi chiama da dietro “Pambieri”, era Alberto Sironi, diventato poi un regista, quello che ha fatto per esempio tutta la serie di Montalbano. Quindi mi fa “guarda anch’io volevo far la domanda, mi hanno detto che è chiuso, però c’è molta gente che è arrivata in ritardo, quindi aprono un’altra sessione d’esame”. Ah che bello, mi ha preso proprio mentre ormai era già finita. Mi sono iscritto, sono entrato, ho fatto la scuola e poi dopo un anno Giorgio Strehler, che è stato un grande regista del Piccolo di Milano, ci ha fatto fare “Il gioco dei potenti”. Nel Gioco dei Potenti, da Enrico VI, tutta la scuola fu presa in blocco, in prove che sono durate quasi un anno, uno spettacolo megagalattico, 70 attori, noi facevamo le comparse ovviamente, però è stata un’esperienza grandiosa. Quando iniziò a frequentare la scuola del Piccolo di Milano, mentre studiava Giurisprudenza, i suoi genitori accolsero positivamente la sua decisione, oppure all’inizio dovette in qualche modo seguire la sua passione per la recitazione di nascosto da loro? Eh, all’inizio è stata dura. Essendo una famiglia medio-borghese i miei genitori non vedevano questa cosa bene, quindi ho dovuto iscrivermi a legge, solo dopo sono passato al Piccolo, ho deciso di fare questa prova, questo tentativo. Ho continuato a dare esami per il primo anno, poi ho cominciato “Arlecchino servitore di due padroni”, la tournèe, a stare in giro e ho capito che non potevo, insomma dovevo scegliere o l’uno o l’altro. Ho fatto 8 o 9 esami, in cui in uno ho preso anche 30 e lode, era medicina legale, mi piaceva molto. Attinente coi gialli, i thriller, studiare da dove è arrivato il proiettile, se lo sparo è stato da lontano o da vicino, insomma affascinante. Quindi ho fatto questi esami e poi ho cominciato le tournèe, a far teatro a tempo pieno. I miei ovviamente non la presero bene, però io ho detto loro, “se fra 2 anni non succede niente, avete ragione voi, smetto tutto e torno a fare legge, datemi tempo”. E se fossi rimasto al Piccolo non sarebbe successo niente, avrei conquistato solo una battuta all’anno, invece ho avuto l’occasione di incontrare Enriquez che mi ha fatto fare “Le Mosche” di Sartre a Vicenza e a 23 anni ho fatto il primo protagonista con la Morioni. Ho vinto la Noce D’oro e lì sono salito su un piedistallo dalla quale non mi sono più mosso, nel senso che da lì è andato tutto a crescere. E anche quella è stata una coincidenza fortunatissima perché cercavano questo primo attore, non sapevano più a chi rivolgersi e così Adriana Innocenti, che era una del gruppo di Enriquez e in quel periodo si trovava a Milano, è entrata negli studi televisivi e quella che faceva i contratti le ha chiesto se conoscesse qualche attore giovane, che si era fatto vedere in quegli anni, lei “guarda a me è simpatico questo, anche se c’ho litigato per i soldi” e ha fatto il mio nome in una lista. A volte le coincidenze no? Allora mi hanno chiamato, io non c’ero, ero a Roma in quel momento a cercar lavoro, e anche Enriquez era a Roma. Così mi chiamano, mi metto in contatto con Enriquez, vado a fare il provino e lui mi riceve con un caffettano arabo, di quelli lunghi, e mi fa (in toscano) “Oh pallino, fammi sentì qualcosa perché io non ti conosco”. Allora ho fatto il pezzo del Caligola e dopo un attimo Enriquez mi fa “basta, sei tu via, si fa. Puoi fare Oreste”. Io ero emozionantissimo all’idea, e lui dice “non ti fidi? Dai guard...” prende un clinex e su gli scrive “io mi impegno a scritturare Giuseppe Pambieri...” su un clinex t’immagini... “eh via tieni, stai tranquillo, ormai è fatta, hai la mia parola, e poi vedi te l’ho scritto”. Insomma morale io ogni 10 giorni chiamavo e dicevo ma è vero? E’ vero? Cominciamo a Sirolo le prove... Poi alla fine ci siamo riuniti, abbiamo provato ed è stato un bellissimo successo a Vicenza. E poi da lì ho iniziato, ho anche vinto la Noce D’oro che era un premio importante per gli attori giovani. Sarebbe stato un talento sprecato se non ci fosse stata questa coincidenza... Ma poi nella vita, anche dopo, è tutto così il nostro mestiere. Perché tu non è che entri in un posto, hai una scrittura e vai avanti per anni. Qui è alla giornata, quindi dipende tutto dagli incontri, dalle occasioni, se ti trovano al telefono quel giorno che ti stanno cercando disperatamente perché è caduto un attore e loro hanno bisogno di te, ed ecco che se sei un attore giovane è un’occasione per fare carriera. E in televisione è lo stesso. Io ho fatto subito delle belle commedie, però “Le sorelle Materassi” sono arrivate non subitissimo, prima sono riuscito a fare “La parigina” di Henry Becque con la Proclemer ed “Elisabetta d’Inghilterra” con la Brignone. Ed anche lì, io stavo lavorando a Torino, sapevo che facevano i provini per Remo nelle “Sorelle Materassi”, ovviamente mi sarebbe piaciuto, tutti gli attori giovani sognavano di fare una cosa del genere. Poi allora c’era meno frazionamento, oggi ci sono una caterva di fiction, di reti, di canali, allora era tutto molto più concentrato per cui uno sceneggiato importante della Rai era quello e basta. In un anno ne facevano 2 o 3 e chiuso, quindi entrare in quello era molto più difficile. Però se c’entravi era anche determinante... Insomma io ero a Torino a recitare, e avevo un impegno che mi doveva durare ancora per 15 giorni. Era un testo scritto al momento su un rapinatore che aveva ucciso un gioielliere, però si era scoperto che questo ragazzo aveva un animo poetico, aveva scritto delle poesia, così è stato scritto da Angelo Della Giacca un testo all’impronta, proprio sul fatto reale che era avvenuto. Lo facevamo alle Vallette per lo Stabile di Torino e, mentre ero lì a fare questa cosa mi arriva una telefonata da Roma, dalla Rai: “Signor Pambieri dovrebbe venire giù a fare il provino per le Sorelle Materassi”. Avevano già sondato tutti gli attori italiani, quindi io sono arrivato quasi per ultimo, sono stato forse l’ultimo, e tante volte essere ultimi non è male perché la gente esasperata, non ne può più allora, visto che c’è un interesse per te e ti chiamano, le tue qualità le esaltano. Morale della favola vado giù a fare questo provino, dopo 2 giorni mi chiamano a Torino dicendomi che Ferrero mi aveva scelto. Lui diceva sempre che assomigliavo a quello che aveva fatto il film con le due Grammatica, che era Massimo Serato. Allora il problema era sganciarmi dal teatro, dovevo andar giù subito perché le prove sarebbero cominciate subito dopo. Alchè vado dal direttore del teatro, che ha capito e mi ha lasciato andare anche se ho perso le ultime due repliche. Beh ecco, anche lì se c’era uno che diceva che il contratto è così e basta non potevo fare nulla. Ecco perché io sono abbastanza morbido quando sento gli attori che hanno un’occasione, è terribile dire no perché puoi rovinare la carriera ad una persona. Purtroppo è così la nostra professione. Magari stai qua e fai una particina e ti chiama Coppola e ti vuol vedere, non puoi andare, non puoi neanche farti vedere. Oppure ti chiamano per uno sceneggiato importante e hai già un contratto...è durissima... Quando avvenne e con quale testo il suo primo ed ufficiale debutto in palcoscenico di fronte al pubblico? Il primo con la scuola, “Il gioco dei potenti” dall’Enrico VI di Shakespeare per la regia di Strehler, anche se io considero il mio debutto vero, grosso con le “Mosche” di Sartre dove facevo il protagonista a 23 anni a Vicenza. Ci sono delle sensazioni di quella prima esperienza di recitazione che si ripresentano costantemente ad ogni sua recita, in particolare quando presenta un nuovo spettacolo? Beh no, è cambiato. L’emozione c’è sempre, ma è riferita alla situazione in cui ti trovi al momento in cui devi andare in scena. Sicuramente un po’ di emozione c’è sempre, specialmente quando debutti. C’è sempre il terrore dei vuoti di memoria, sia quando è poco che lo fai che quando è tanto che lo fai, e non quando sei nella via di mezzo, perché stai ancora in tensione. Quando è tanto che lo fai perché ormai è una roba a macchinetta, ti distrai e improvvisamente non sai più dove sei. Poi può succede anche all’inizio, la tensione ti fa dimenticare una battuta. E’ uno dei grossi problemi dell’attore in scena. Infatti si suda, ci si emoziona ed è dura insomma... Io credo che un vero attore deve provare un po’ di emozione ed essere un po’ impaurito alla prima altrimenti non lo fa neanche bene. Quell’adrenalina che ci vuole all’inizio, poi vai è chiaro, però un po’ c’è sempre. Leggendo il suo prezioso e ricco curriculum teatrale si nota che lei ha interpretato testi dei più importanti ed interessanti Autori (William Shakespeare, Goldoni, Pirandello…). C’è, fra tali autori, uno al quale si sente più vicino e i cui testi la emozionano e la coinvolgono di più? Si, fra tutti forse è Shakespeare quello che mi emoziona di più, in modo più totale. Shakespeare, a parte la grande poesia che c’è nei suoi testi, dà la possibilità all’attore (forse perché le mie qualità di attore sono molto portate verso quel tipo di recitazione), di sviscerare dei grandi personaggi che hanno le sfaccettature più varie. Sappiamo che anche nella grandi tragedia di Shakespeare c’è sempre un momento comico, un momento drammatico, un momento di ironia. Ha un certo istrionismo, un uso vocale, ti dà questo slancio, questa forza, questa potenza, questa possibilità di espanderti. Però in generale io amo fare qualunque genere, mi piace fare il genere moderno, mi piace fare il naturalismo. Anche in questo spettacolo, nel “fu Mattia Pascal”, in cui c’è la possibilità di stare in scena tanto, io cambio molti registri, passo dal drammatico al comico alle cose verissime come faccio in televisione ovviamente, che non sempre in teatro si possono fare. Il teatro richiede sempre un certo diaframma, un certo piedistallo, perché devi arrivare in un certo modo ad imporre la tua recitazione. Fra i suoi sogni, c’è un’opera che avrebbe voluto tantissimo interpretare, ma che non ha ancora portato in scena? Riccardo III di Shakespeare, e se non lo faccio presto dove lo faccio più... Beh poi c’è Pirandello, adesso faremo “Il piacere dell’onestà”. Ce n’è tanti autori moderni, se arrivano degli autori bravi, moderni li facciamo, io ne ho fatti diversi. Però ecco il mio sogno nel cassetto è un bel Riccardo III. Nell’800 naturalista o verista il teatro aveva la caratteristica di analizzare la società “scientificamente” per darne una riproduzione scenica che ne fosse uno specchio critico. All’inizi del 900, invece, la rappresentazione della società diventa uno spettacolo fine a se stesso, mirante solo a intrattenere piacevolmente il pubblico con conclusioni sempre appaganti. Col passare degli anni, poi, il teatro si è impegnato nella ricerca di strade nuove tendenti per lo più a un’indagine non sociale ma interiore. Secondo lei quale deve essere lo scopo del teatro? Lo scopo del teatro è di rappresentare e dare la possibilità al pubblico di vivere dei momenti di grande emozione, che vengono portati attraverso l’interpretazione di testi che sono scritti per il teatro; quindi sono testi che ovviamente, più hanno una valenza poetica e più arrivano al pubblico e credo che sia un’esigenza innata nella natura umana quella della rappresentazione. Non per niente sappiamo che il teatro è nato come fatto rituale, con rappresentazioni sacre, per cui è insito nella natura umana. Perché l’uomo una volta all’anno vuole mascherarsi, c’è il carnevale. C’è questa ricerca del camuffare la propria identità e quindi di entrare in altri personaggi. Poi la magia bellissima che si crea fra pubblico e attori è soltanto in teatro, perché se si va al cinema o la televisione, intanto non sono mezzi diretti, invece in teatro avviene tutto lì, sotto i tuoi occhi. Per certi versi può essere paragonato alle dirette televisive come si faceva una volta, però anche lì c’è la televisione, c’è il mezzo che comunque allontana. In teatro al contrario c’è questo afflato, che arriva dal palcoscenico, questo commistione fra il pubblico e gli attori. La bellezza del teatro è proprio quella che ogni volta hai un pubblico diverso, una fruizione diversa di quello che fai. Ci sono anche i pubblici che reagiscono maggiormente, ad esempio la domenica noi sappiamo che per tradizione teatrale il pubblico si lascia andare di più, il pubblico della domenica pomeriggio è sempre il pubblico più festoso. Comunque oggi come sempre il teatro ha questa funzione, forse oggi più che mai in un momento in cui stiamo andando verso una tecnologia esasperata. C’è internet, ci sono i mezzi tecnologici, c’è il cinema fatto con tutti i trucchi possibili e immaginabili. Il teatro ti riporta alla finzione reale, nel senso che tu sei di fronte ad un attore vero che interpreta un sogno, una fantasia, la riporta e ti da degli stimoli, quindi non c’è niente che possa cancellare il teatro. E anzi più andiamo verso una tecnologia sempre più avanzata e più ci sarà il bisogno di uscire di casa e andar in teatro a vedere l’attore che recita, l’attore dal vivo che ti da delle emozioni, che ti racconta delle storie, che sono le nostre storie rivestite dall’autore con una fantasia particolare per cui arriva ancora di più nella mente dello spettatore. C’è stato un personaggio così complesso per cui ha avuto difficoltà a calarsi nella parte? Beh tanti, perché ogni tanto ci sono personaggi un po’ difficili da affrontare, per esempio uno è stato il “Diavolo Peter” di Salvato Cappelli. Il diavolo Peter era il mostro di Düsseldorf che aveva ucciso 200 persone, per cui entrare in un personaggio così è difficile. Non sapevamo, io e il regista, come riuscire a risolvere il problema dell’emissione vocale, come doveva parlare questo personaggio? Perché lui era uno che affascinava e anche nel momento in cui c’era il terrore che serpeggiava per la città, lui ancora riusciva a portarsi via, nei parchi delle ragazze che incontrava. Quindi pensa che potere aveva di affascinazione. Però era una persona molto normale in apparenza, poi si scatenava quest’inferno. Quindi entrare in un personaggio così è molto difficile, ma al tempo stesso è molto affascinante perché entrare nel buco nero della nostra anima, cercare delle cose negative a me ha sempre affascinato molto. Ecco lì per esempio ho faticato moltissimo, poi finalmente abbiamo trovato una voce strana per risolverlo in qualche modo ed è andata bene. Poi tutti i grossi personaggi possono essere difficili, anche se dipende dal testo e dall'autore. Per esempio ho fatto Shylock nel “Mercante di Venezia” che poteva sembrare molto arduo, poi invece è stato scritto in un modo tale da Shakespeare per cui mentre lo facevi trovavi già gli appigli senza neanche l’aiuto grosso dei registi. Lei è un attore molto eclettico, che ama interpretare personaggi totalmente diversi tra loro, questo è da considerare un pregio o un difetto nella panoramica teatrale italiana? Io penso un pregio, però se va rapportato alla critica può darsi anche che non sia proprio un pregio. Da un punto di vista attoriale però è chiaro che se fai l’attore devi saper fare tutto, dalla commedia comica alla cosa drammatica, altrimenti che senso ha, non ti diverti neanche. Poi invece è chiaro che magari uno come Lavia o Branciaroli, che fanno sopratutto tragedie o classici, per i critici sono quell’attore di riferimento. In Italia siamo sempre un po’ provinciali, mentre in Inghilterra un attore che fa anche un testo comico è considerato bravissimo, qui quando fai un testo comico c’è sempre un po’ di puzzetta sotto il naso perché tanto fai una cosa tanto per piacere al pubblico. Non è vero invece, a parte che scrivere cose comiche e far ridere è molto più difficile che far piangere. Quindi sono molto contendo di essere un attore eclettico e finalmente la gente l’ha capito e anche gli addetti ai lavori lo sanno ormai. Per esempio ultimamente ho avuto di nuovo la proposta di un testo classico, però ho fatto anche “la cena dei cretini” con Beruschi, era un testo comico ed è stato divertentissimo. Tra tv e teatro, dove trova le maggiori soddisfazioni? Il teatro è molto importante, però anche in televisione anni fa ho fatto “Il barone e il servitore”, è andato il sabato sera, in 7 puntate ed era tratto da farse dell’ottocento. Io parlavo in torinese. C’era anche mia moglie, che era sposata con questo ferroviere, io arrivavo a casa sua e la insidiavo, poi arrivava il ferroviere grande e grosso e io subivo le sue violenze. Ha qualche particolare rito scaramantico che mette in atto prima di affrontare il palcoscenico? No, in genere no, cerco di sentirmi luminoso, di mettermi in una posizione di calma psicologica. Mi faccio magari il segno della croce ma non come gesto di superstizione ma perché ci credo. In famiglia siete tutti attori, ma il concetto di spettacolo è diverso tra voi? Beh no, pressappoco la pensano come me, siamo sulla stessa linea. Anche perché vivendo insieme diciamo che la pensiamo in modo uguale. Loro forse amano molto il lavoro però non con la passione con cui l’amo io, però anche a loro piace molto, Micol poi quando è in scena è contentissima. Lei e sua moglie Lia Tanzi formate da anni collaudata coppia in scena, oltre che nella vita: recitare con Lia e, da qualche anno, anche con sua figlia Micol le regala delle emozioni e delle esperienze in scena ancora più intense, rispetto che lavorare con altri colleghi non familiari? Con Micol ho fatto per esempio “Il Costruttore Solness”, in cui io facevo un uomo di una certa età che viene intrigato e si innamora di questa ragazzina, che gli piomba in casa ma che poi lo porterà alla morte. E' inquietante come dramma, infatti non per niente è uno degli ultimi scritto da Ibsen quando era già vecchio e aveva queste voglie senili per le ragazzine. E quindi lì subentra il fatto che è tua figlia, per il pubblico anche un interesse maggiore nel vedere come si comportano padre e figlia in scena dovendo fare questo. Oppure quando fai veramente la figlia, come è successo per esempio nel “Mercante di Venezia” in cui faceva Jessica. In queste situazioni l'essere realmente padre e figlia crea una complicità maggiore nel dire le battute e nell’agire. Se poi siamo padre, madre e figlia come nel “diario di Anna Frank” è ancora meglio ovviamente. Adesso forse anche nel “Piacere dell’onesta” entrerà Micol. Vi capita di portare in scena tensioni familiari quando recitate insieme? Si, questo succede e purtroppo alle volte si può anche notare, magari il pubblico no ma gli altri attori si perché se abbiamo litigato un attimo prima e dobbiamo fare una scena d’amore c’è più freddezza, oppure ciò che è capitato nella “bisbetica domanta” in cui lei doveva darmi una sberla o io dare una sberla a lei, o comunque un atto di violenza, è chiaro che invece di una sberla arrivava una tranvata tremenda. E quindi purtroppo si portano in scena queste tensioni private, anche se io tendo a staccare di più, essere più razziocinante, Lia che è più passionale meno, Micol è un po’ a metà strada. Quando sua figlia Micol le comunicò la decisione di intraprendere la professione di attrice cosa provò e come reagì? Noi non l’abbiamo mai spinta a farlo, lei c’è stato un periodo quando era piccolina che adorava il teatro, veniva, imparava le parti dopo 3 giorni di spettacoli che facevamo e sapeva tutto a memoria. Noi assistevamo a questa cosa e poi lei doveva ancora finire gli studi. Dopo c’è stato un periodo invece di rigetto completo del teatro, fino a che verso i 15/16 anni ha incontrato Renzo Montagnani, con cui ci vedevamo dopo cena, dopo teatro a Milano e che mi era molto amico, anche perchè fu mio compagno di lavoro nelle “Mosche”, mi ha aiutato molto, lui era già un attore importante, lui faceva Giove, io Oreste. E così si parlava sempre di quando ci sarà Micol, vedrai, la faremo lavorare, e così buttava lì delle frasi. Poi ha incontrato Micol, ha cominciato a parlarle e lui da toscano con questa voce affabulatrice l’ha incantata e le diceva un giorno o l’altro vedrai che noi lavoreremo insieme. E da lì è rinata la passione per il teatro, tant’è vero che poi ha debuttato con Montagnani. L’ha chiamata il regista su indicazione di Montagnani, ha fatto un provino ed è stata presa per il “Giardino di aranci fatto in casa”, è stato un grandissimo successo comico, divertente. Era un testo di Neil Simon e da lì ha incominciato anche lei la sua carriera. Lei ora torna a rappresentare “Il fu Mattia Pascal”, opera dalla quale emerge la tragica impossibilità di sfuggire alle convenzioni della società costituita e, contemporaneamente, l’impossibilità di trovare in esse il tessuto connettivo di una vita sociale, di comunicare con gli altri; l’amara constatazione che fuori della società “non è possibile vivere”. Lei condivide questa visione di Pirandello? Questo lo vediamo tutti che è sempre più difficile inserirsi, riuscire a vivere una vita decente. Poi “Il fu Mattia Pascal” ha un po’ anticipato questo, è stato scritto nel 1904, è un romanzo fondamentale e noi sappiamo che fa il paio con Musi e tutti quelli usciti in quel periodo, che cominciarono a parlare di questa normalità della vita, di questa gente piccola, mediocre che deve scendere a patti con una società che la respinge, che non la accetta e quindi c’è questo desiderio di fuga. Chi non ce l’ha dentro di se, tutti abbiamo nella nostra vita un momento in cui ci piacerebbe essere chissà dove, via via via lontano da tutto, sparire... E quindi è un messaggio ancora validissimo, e poi questo testo contiene tutta la drammaturgia di Pirandello, il fatto di mascherarsi, trovare un altro io, ci sono proprio tutti gli stilemi di quello che sarà poi messo nelle sue commedie. Infatti è stato scritto prima di tutte le commedie e di tutti i suoi drammi. C’è un attore a cui si è ispirato agli inizi della sua carriera o al quale tutt’ora aspira ad assomigliare? No ma magari nel corso dell’affrontare i personaggi il regista mi dice pensa un po’ ad Al Pacino in quel film, pensa ad Harrison Ford in quell’altro, pensa alla grande determinazione di Gianni Santuccio che hai visto...ecco in quel senso, però io sono io e basta, non voglio essere diverso! I grandi attori a volte recitano anche nella vita, magari per non fare trasparire uno stato d’animo o un sentimento. A lei è mai capitato? Sono pessimo nella vita, mia moglie è più brava. Io in scena sono pronto a fare qualsiasi cosa, dal mago, all’illusionista, al poveretto, al semplice, all’assassino, qualunque situazione mi sento in grado di affrontarla, nella vita no. Nella vita sono io con gli imbarazzi, le incertezze, è curioso ma è così. Spesso l’attore non è un uomo molto sicuro di se, spesso nasconde una grande timidezza, Gassman ad esempio era un timido. Addirittura io mi ricordo che quando ero da solo con lui e con un altro a tavola era un uomo imbarazzante, perché vedevi che aveva una gran timidezza. Invece lui esplodeva quando si sentiva sicuro, quando aveva vicino persone che conosceva bene con cui poteva giocare, e poi ovviamente quando andava in televisione o quando faceva il cinema. Essere attori sulla scena mentre interpreti ti da un grande alibi per cui anche nella vita, quando hai la possibilità puoi fare i tuoi numeri, le tue parti, però poi preso nella verità vera è diverso. A me è servito molto fare l’attore per superare certe timidezze, sicuramente è un transfert incredibile, ti aiuta, però di base parti che sei un timido. C’è una persona nella sua vita che l’ha spinta ad intraprendere la strada che ha scelto o che le ha dato un importante insegnamento per migliorarla e farla crescere professionalmente? Diciamo per intraprenderla no, sono stato io e ho già spiegato prima come è avvenuto. Poi ho incontrato delle persone che mi hanno aiutato, e fra queste sicuramente Strehler è stato fondamentale come insegnate e come insegnamento. Strehler, Enriquez con cui ho fatto le “Mosche” e poi ho fatto anche “L’Ippolito” a Siracusa a 25 anni e altri spettacoli, e poi direi anche Enrico Maria Salerno, che è stato un grande attore italiano morto da poco. Poi io osservavo molto, invece oggi vedo un’arroganza in questi giovani che escono, non stanno a sentire, non seguono. E poi io lo dico sempre agli attori, imparate dagli altri, avete la fortuna di stare con attori importanti che hanno una carriera alle spalle, ma guardate come affrontano il teatro, come dicono quella battuta, si impara così. Io ero così, stavo in quinte a guardare, mi mangiavo tutto, ero furbo, invece oggi hanno questa arroganza che nascono e già sanno tutto ed è terribile. E’ terribile però peggio per loro, poi non approfondiranno mai e purtroppo molti sono così. In tantissimi anni di teatro ha interpretato innumerevoli spettacoli e ruoli, c’è qualche personaggio o opera a cui è rimasto particolarmente affezionato anche dopo tanti anni? Come spettacolo le “Mosche” di Sartre mentre come personaggio Edmund nel “Re Lear” di Strehler. Le Mosche di Sartre perché a 23 anni ho debuttato a Vicenza, mio primo protagonista, una marea di parole accanto alla Moriconi, che era già Valeria Moriconi, allora aveva 36 anni ed era al massimo dello splendore. Lei mi ha aiutato molto in scena, mi dava forza. Quindi questa è una cosa alla quale sono legatissimo, un personaggio a tutto tondo, bellissimo. Poi Edmund nel “Re Lear” di Strehler, e anche quello forse è lo spettacolo più bello di Strehler. Io ero uscito dalla scuola, ho fatto “Gli Innamorati” a Bologna, poi con il “Re Lear” nel ‘72 Strehler mi ha richiamato e mi ha detto “dovresti fare però il provino”. C’era anche Lavia, e anche lui allora cominciava la sua carriera. Quindi dovevamo fare il provino per i due fratelli perché poi Strehler doveva scegliere chi doveva fare Edmun e chi Edgard. Io gli ho detto che provini non ne facevo, mi spiaceva ma lui mi hai visto nascere lì dentro, ho fatto le “Mosche” e ho vinto la Noce D’oro quindi non vedevo perché dovevo fare il provino, e alla fine non l’ho fatto. Poi mi ha dato Edmund che era il ruolo che gli piaceva di più e che era quello più vicino all’idea di Riccardo III, il cattivo. Edmund è il perfido, mentre Edgard è il buono. Invece Lavia l’ha fatto il provino. Poi quando sono uscito dalla scuola del Piccolo ho iniziato a fare veramente l’attore, stando lì invece dicevo battutine e basta. Certo ho cominciato presto però, già a 21, 22 anni. Infatti altra cosa che dico sempre agli attori è che più presto si comincia meglio è in questa professione. Perché hai più tempo per riuscire a trovare l’occasione giusta e imparare. C’è una frase in particolare che ha recitato, che le è rimasta impressa, e che ogni tanto si ripete? Il pranzo è servito??? No scherzo, al momento è difficile, ne ho amate tante. Potrebbe essere l’inizio di Edmund, me la ricorderò sempre perché Strehler non mi faceva mai parlare. “Io, Edmund...” e Strehler “no”, allora di nuovo “Io, Edmund...” - “no, non va bene” - “Io, Edmund...” – “no”, insomma era una cosa infernale, non andava mai bene. Poi io partivo dalla platea, gli altri stavano su e dopo 20 minuti entrava in scena Edmund. Venivo illuminato da una luce apposta per cui le signore vicino si spaventavano tantissimo, poi aprivo anche il giubbetto nero in pelle. Però avevo appena fatto “Le sorelle Materassi” per cui era come adesso. Allora poi la televisione aveva un impatto ancora più grosso e quindi mi riconoscevano. Poi diciamo che un’altra battuta importante è stato il monologo finale delle “Mosche”, quando lui come un pifferaio matto porta via le mosche e libera la città da questa maledizione. C’è stato nella sua carriera un momento di crisi durante il quale ha pensato di smettere? Se sì cosa o chi le ha fatto cambiare idea? Fortunatamente no, non ho mai avuto questo problema. Sono stato fortunato, mi è andata bene, poi mi piace il mio mestiere, anche se un anno faccio meno di un altro. Certo dubbi sulla professione in generale, in senso filosofico possono venirti. Dici ma perché facciamo il teatro? Che senso ha fare il teatro oggi? Che senso ha fare il teatro in una società in cui ci si ammazza e si vede quello che si vede in giro? Questo può succedere ma sono discorsi che lasciano il tempo che trovano. Allora tutto quello che riguarda l’arte che senso ha farla? E invece no, è una scappatoia secondo me fondamentale per la mente, per far pensare la gente, per distoglierla dai problemi e farla anche sognare. Oltre ad essere un valente attore lei è indubbiamente anche un bell’uomo, pensa che il suo aspetto abbia condizionato la sua carriera? Da un certo punto di vista si ad essere sinceri, ma succede anche il contrario perché a parità di bravura, un attore bello per i critici è meno bravo di uno brutto. Non si sa perché ma è così. Io ho fatto molta fatica perché tanto sei simpatico, bello e vuoi essere anche bravo? In genere se si guarda bene è così. Perché Paul Newman non ha mai preso un oscar per esempio, l’ha preso alla carriera o per la regia che ha fatto ma non per altro. Redford lo stesso mi pare. I critici è chiaro che preferiscono l’attore un po’ particolare, non solare. L’attore solare non può interpretare bene certi personaggi contorti, complicati, invece non è vero, chi ha le qualità lo fa, lo riesce a fare. Poi però per il pubblico, per la gente il primo attore nasce dall’attore giovane. Primo attore si diventa in linea diretta se hai anche un fascino, se sai stare sulla scena, se hai una simpatia verso il pubblico. Ci sono dei primi attori che sono antipatici e infatti sul pubblico non hanno un grande riscontro. Quale ritiene che sia un suo pregio e un suo difetto nell’ambito lavorativo? Un mio pregio è che sono molto preciso, mi impegno molto. Il difetto è poi proprio questo perché pretendo troppo anche da me stesso certe volte, mi autocritico troppo e questo tutto sommato è un po’ negativo alle volte. Poi quando faccio io la regia pretendo moltissimo. Poi mi rilasso nella vita normale ma quando sono in scena... Attenzione però, non è che considero il teatro una cosa sacrale, anche perché io dico sempre a tutti, anche agli attori giovani, dobbiamo divertirci. Relativamente ovviamente, perché anche quando fai un dramma ti diverti. Poi se noi ci divertiamo diamo un divertimento maggiore anche al pubblico. Se noi siamo angosciati trasmettiamo angoscia, anche quando fai una tragedia devi avere sempre una certa leggerezza. Dirò di più, le mie esperienza comiche e brillanti mi hanno aiutato molto nel drammatico. Trova che sia più difficile fare l’attore o il regista? Beh pensandoci bene, con le mie esperienze di regia, forse è più difficile fare l’attore. Perché io non reputo di essere un genio della regia, ho fatto delle cose bene, con grande professionismo e devo dire che mi sono trovato molto bene a dirigere attori, da una grande soddisfazione e poi non hai l’impegno di dover studiare a memoria. Vedi gli altri, è una vendetta meravigliosa star giù e dire ripeti, non la sai, studia per favore perché domani devi saperla la parte. Invece quando sei su tu è uno sforzo maggiore, quei 30 giorni sono duri. Io una volta avevo una memoria prodigiosa, a 20 anni, poi a 40 un pochino meno e adesso un po’ meno ma è normale, devi far più fatica. Allora io adesso preferisco prendere la parte in anticipo, così la studio prima se posso e se ho tempo. Per esempio mi capitava nelle roulotte di Incantesimo di studiare Creonte per l’ ”Antigone”, nelle pause ne approfittavo. Invece nella televisione quelle battute lì le imparo al momento, non riesco a studiarle prima, anche perché poi con la Pitagora cambiamo tutto e le adattiamo noi. Poi è chiaro che sono scene brevi, ti fissi su quelle, giri, poi se sbagli si rifà ma in genere quasi sempre la prima è buona con noi. Quando lavoro con lei poi siamo molto affiatati, magari con altri meno ma insomma diciamo che in genere sono scene brevi quindi si fa presto a impararle. Le ha mai dato fastidio per certi versi la popolarità che ha raggiunto e il fatto di essere un personaggio pubblico? Io non sono ipocrita e dico che mi fa molto piacere. C’è stato un periodo in cui il pubblico è cominciato a sciamare perché non facevo più televisione e mi spiaceva. Ero sempre Pambieri perché i ricordi degli sceneggiati che avevo fatto in quel periodo lì esistevano, però è chiaro che dispiace. Il fatto che ti riconoscano, che ti chiedono l’autografo. Certo alle volte può diventare anche un po’ ossessivo quando li hai proprio addosso, che ti vengono in 40, 50 nei turni scolastici, oppure quando tu stai vestendoti o parlando al telefono e vengono lì e quasi ti strappano il telefono. Però in generale io sono dell’idea che ben vengano, non faccio come quelli che fuggono, per carità, che palle sta gente con l’autografo. Perché poi quando cominciano ad avere meno popolarità diventano pazzi che non c’è più nessuno che li cerca e che li ferma. Pagano qualcuno per farsi riconoscere. Come in un film in cui c’era uno in crisi, faceva le soap e ormai non aveva più un grande successo, ha mandato una scrittrice sua amica in avanscoperta a dire “ah guardi, ma quella lì non è quell’attrice famosa, beh vada a chiedere l’autografo...” così si tirava su. Deve buttare dal burrone un collega col quale ha lavorato: chi butta e perché? No nessuno, non butto nessuno. Certo ognuno ha il suo carattere, dire che ho incontrato caratteri meravigliosi sempre non si può dire. Anche perchè io non sono un invidioso e attiro anche poche invidie. Si le invidie ci sono, perché poi quando si sta in alto ti curi poco degli altri, è quando sei sotto che brami a diventare qualcosa e allora vedi quello che fa quel ruolo e vorresti mangiarli vivi e annientarli per fare tu la parte. Io sono stato abbastanza fortunato per cui questo sentimento non mi appartiene. L’emulazione si, dire “ah che bel testo che ha scelto vorrei farlo anch’io” per esempio Barbareschi per adesso fa “Chicago” e, l’ho detto davanti a tutti, ho un’invidia tremenda perché avrei voluto farlo io. Ecco in quel senso si, però avrei dovuto studiare canto bene come ha fatto lui. Ma non è detto che non faremo una commedia musicale, mi piacerebbe molto. Se potesse scegliere un attore o una attrice, del presente o del passato, con il quale o la quale recitare a teatro chi sceglierebbe? Gianni Santuccio era grandioso, forse uno dei più bravi. Con lui mi sarebbe piaciuto tantissimo lavorare. Tra i grandi registi del secolo scorso quale ritiene sia stato il più innovativo? I grandi registi li ho passati un po’ tutti, da Zeffirelli a Ronconi, ah ecco mi manca Massimo Castri, avrei voglia di avere un’esperienza anche con lui. Da spettatore qual è il genere cinematografico che preferisce? Mi piacciono molto i thriller, supportati dai grossi attori con una bella regia, mi rilassano molto. Oppure i film di grande fantasia, dove sogni, come “Il signore degli anelli”. Secondo lei, è possibile riconoscere un potenziale attore/attrice anche solo dall’espressività dei suoi occhi? Io ritengo di saper riconoscere un attore o un’attrice anche a prima vista. Devo scambiargli qualche parola però mi è capitato di intuire subito se uno sa stare in scena oppure no. Non è difficile per uno che ha una certa dimestichezza. Purtroppo vedo invece che certi registi non ce l’hanno per niente e sbagliano moltissimo a scegliere gli attori. Per esempio quando faccio i provini, quando faccio le regie, mi basta pochissimo, quasi non faccio nemmeno farli. Vedo subito, sento subito se uno ha l’intelligenza scenica, è facile capirlo. Che cosa non dovrebbe mai fare un attore? Starsene chiuso in se stesso. Quando esce dalla scena un attore non dovrebbe mai chiudersi, deve esercitare una grande osservazione del mondo che lo circonda, essere molto aperto, cercare di fare più esperienze possibili. Anche quelle che vengono senza volontà, tipo tragedie o cose che succedono, ma sicuramente sono esperienze che arricchiscono enormemente. Io se oggi facessi personaggi che ho fatto a vent’anni li farei con una bravura 100 volte superiore perché è passato tanto tempo e l’esperienza in questa professione è fondamentale. Se tu provi dei dolori veri e devi esprime un dolore in scena lo fai molto meglio perché ti agganci a quello che hai provato e ti viene quasi naturale. Se invece sei giovanissimo e devi inventartelo è più difficile e anche il risultato è più inefficace. ![]() Intervista di Nino Dolfo
Intervista a Giuseppe e Micol Pambieri, interpreti di Pirandello Quando «Il fu Mattia Pascal» diventa un affare di famiglia Sul palco del «Sociale» anche Lia Tanzi, moglie e madre Storia di un uomo che cerca invano di reinventarsi una vita. Questo il destino di Mattia Pascal, o meglio de «Il fu Mattia Pascal», personaggio centrale nell'opera di Pirandello. Lo spettacolo teatrale che Tullio Kezich ha desunto dal celebre romanzo, affidato alla regia del bresciano Piero Maccarinelli, chiude oggi pomeriggio al Sociale con un bilancio lusinghiero di applausi e buona stampa. Giuseppe Pambieri è il magistrale interprete. Con lui sono, come sempre, la moglie Lia Tanzi e la figlia Micol Pambieri. «La storia di Mattia Pascal è quella di un fallimento - racconta Pambieri -. Egli scopre che tutto quello che ha cercato è stato qualcosa di virtuale, che non lo fa vivere da uomo. Allora decide di tornare indietro con le pive nel sacco, però con una grande esperienza di vita. Ha capito come va il mondo. E così se ne torna al paesello, a Miragno, e il contatto con questo mondo squallido provoca anche le risate genuine del pubblico. E sentire qualche risata è un piacere, anche se non è uno spettacolo comico». Come fa a conciliare gli impegni teatrali con la serie televisiva di «Incantesimo»? «Adesso non sto lavorando per la tv, riprenderò a maggio, perché ricompaio alla fine della sesta serie. Poi ritornerò nella settima. Negli anni precedenti sono riuscito a combinare le cose con sforzi mostruosi, dividendomi, come Mattia Pscal, prendendo aerei e vivendo intensamente». Certo, un bel cambio di intensità passare dalla soap al grottesco pirandelliano. «Sicuramente. Io, ci tengo a dirlo, sono un eclettico, come dovrebbe essere ogni attore. Ho fatto di tutto, ho attraversato i generi, sono passato dalla tragedia alla commedia. Shakespeare ce lo insegna: anche i drammi hanno risvolti comici. La comicità alleggerisce, ma dà anche spessore alla tragedia. E il grande attore si coglie nella commedia. Il mio maestro è stato Alberto Lionello. Lui poi si è rovinato, perché ha fatto solo quello, mentre era nato come attore completo. Si era innamorato a tal punto del pubblico ridente che se dopo due minuti non sentiva ridere, stava male». Ne è passato di tempo dal Remo de «Le sorelle Materassi», suo esordio televisivo del 1972. «Lei va a frugare nel mio passato. Beh, è stato il mio lancio. È stata una grande esperienza recitare con la Ferrati e la Morelli, due attrici che oggi i giovani, anche quelli che fanno l'Accademia, non conoscono. E questa è una lacuna grave. Che posso dirle? È stato bello, dalla sera alla mattina mi sono scoperto famoso». In tutti questi anni lei è rimasto fedele al teatro. «Ho fatto anche molti sceneggiati. Pochi film, invece. Con il cinema non c'è stato feeling. Io l'avrei voluto anche fare, ma il cinema non mi ha adottato; non si sa mai, comunque. Per ora mi accontento della televisione, che ti dà una visibilità incredibile. Certo in televisione non faccio la fatica che faccio in teatro. È un personaggio, quello di Diego Olivares in "Incantesimo", che è abbastanza simile alla mia struttura psicofisica, a come sono nella vita. Un personaggio positivo, onesto, pulito, che affronta le realtà senza paura». Micol Pambieri si è trovata con il destino segnato. Due genitori attori non lasciano scampo. «In verità, da ragazza ho sofferto questa condizione - racconta Micol -: figlia di due attori, che non c'erano mai. Quando mi proiettavo nel futuro dicevo: da grande voglio dei figli, non voglio fare la vita dei miei genitori. Poi a tredici anni ho incontrato Renzo Montagnani, che è stato il primo a parlarmi di questo lavoro con grande passione. È stato lui a farmi innamorare di questo mestiere. Dopo la maturità, è ricomparso Montagnani con un copione in mano e mi ha dato un ruolo di protagonista. Da lì sono andata avanti». La vostra è una sacra famiglia in scena. «È bello, perché ci ritroviamo. Al pubblico piace vedere la famiglia in scena. Quando abbiamo fatto "Il diario di Anna Frank", abbiamo interpretato i ruoli di padre, madre e figlia. Gli stessi ruoli sia nella vita, sia in teatro». ![]() Intervista di Lilia Gentili
L’attore è tra i protagonisti della soap «Incantesimo» La seconda giovinezza di Olivares-Pambieri «Cambierà il cast ma anche nella quarta edizione sarò al mio posto. La comedy funziona perché abbiamo un pubblico di tutte le età» Roma. Giuseppe Pambieri è un attore per tutte le stagioni. È passato con disinvoltura, nella sua lunga carriera artistica iniziata a soli 17 anni, dal teatro commerciale a quello impegnato, con Ronconi e Streheler, fino a registi sperimentali come Cherif o Syxty. In televisione poi, dopo essere stato tra i «sex symbol» degli sceneggiati degli Anni Ottanta, è tornato con «Incantesimo», la fiction della Rai che ha catturato il cuore di milioni di telespettatori. - Gli ascolti sono splendidi: martedì scorso, oltre 7 milioni di telespettatori con uno schare del 25,41%. Quali sono i motivi di tanto successo? «È una domanda che mi sono posto anch'io: "Incantesimo" è una grande storia gotico-moderna che attira, con le sue mille sfaccettature, il pubblico di ogni età». - È stato difficile calarsi nei panni del prof. Diego Olivares? «L'esperienza mi ha molto aiutato: sono stato, infatti, un divo televisivo degli anni '80 e, per quasi venti anni, ho lasciato la televisione senza dannarmi l'anima per il mio "ritiro volontario". La proposta di questa soap, scritta con mano felice da Maria Venturi, l'ho accolta con entusiasmo anche per ritrovare l'ambiente e le emozioni di un tempo. Sono riuscito ad entrare bene nel personaggio, aiutato dal fatto di essere molto vicino alla mia persona. Onesto e ingenuo, moralmente schietto ma anche determinato». Dove trova le maggiori soddisfazioni? «Nel teatro, mio primo e unico amore: è essenziale e vitale. Spesso sono preso da profonde crisi di astinenza non appena lascio per un lungo periodo il palcoscenico che, invece, mi aiuta a ritrovare la serenità». I l suo rapporto con il cinema. «Ho partecipato a grandi produzioni negli anni Settanta ma non ha avuto i riconoscimenti che mi aspettavo. Se Cecchi è stato scoperto dal cinema alla mia età, rimango anch'io in attesa di un segnale. Non dispero e aspetto, come si dice, la grande occasione». È d'obbligo una domanda: con Lia Tanzi, formate una coppia affiatatissima sia sotto il profilo artistico che sentimentale. Qual è il segreto del vostro saldo matrimonio? «Siamo sposati dal 1970, con alle spalle cinque anni di fidanzamento. Il nostro amore è frutto di contrasti ma non siamo mai caduti nella noia, che distrugge ogni rapporto. Il dialogo sessuale e mentale, entrambi fortissimi, è l'essenza della nostra lunga unione». Anche sua figlia Micol è attrice. Il concetto di spettacolo è diverso tra di voi? «Sicuramente: per me è vitale; mia moglie antepone la famiglia e Micol, nonostante sia una brava attrice con critiche più che positive, è in una posizione intermedia. Mi auguro che Micol interpreti presto una fiction per avere visibilità con il grande pubblico». Quali sono i giovani attori di talento? «Alessio Boni e Valentina Chico sono in gamba così come ammiro Kim Rossi Stuart penalizzati, però, dal suo aspetto fisico. Nel nostro Paese essere belli, a volte, fa soffrire. A parità di bravura, per i critici, chi è più bello è meno bravo». |
![]() Le fondatrici del fansclub con Giuseppe |